I peggiori 150 della nostra storia – Libro di Gennaro De Crescenzo

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Gennaro De Crescenzo

I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud

prima edizione 2012, pagine 88

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i peggiori 150 anni della nostra storia

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Descrizione del prodotto

Il degrado economico e sociale delle regioni del Sud è la conseguenza dell’unificazione italiana. Prima dell’unità, le regioni meridionali erano allo stesso livello o a livelli maggiori di ricchezza diffusa, industrializzazione e alfabetizzazione delle regioni settentrionali e perfettamente in media con i maggiori Stati europei. Il Regno delle Due Sicilie era il più ricco e florido Stato della penisola, considerato e rispettato in campo internazionale anche per lo spirito di iniziativa e di intrapresa delle sue popolazioni. Dopo l’unificazione è iniziato un lento ed inesorabile decadimento che ha portato il Sud alla miseria, concentrando ricchezze, lavoro e benefici al Nord. Da quel degrado il Meridione non è più uscito.

No, non si tratta delle solite lamentazioni “borboniche”, un po’ nostalgiche e un po’ giustificatorie, dei soliti storici “non ufficiali” e poco attendibili.

Questa volta, si tratta delle conclusioni alle quali sono giunte le ponderose ricerche scientifiche di accreditatissimi studiosi del CNR, della Banca d’Italia e dello Svimez. Dal loro esame Gennaro De Crescenzo è partito per ribadire, numeri alla mano, che l’unificazione d’Italia è stata l’origine del sottosviluppo del Meridione e che gli ultimi 150 anni dovrebbero essere cancellati non certo celebrati. E anche per tirare le somme di anni di battaglia culturale, durante i quali gli avversari sono sempre sfuggiti al confronto aperto, riparando sotto lo scudo delle accademie e degli istituti filosofici.

Questa volta, gli storici “ufficiali” non possono liquidare tutto con un sorrisetto di sufficienza, tornando a ripetere il solito bla-bla risorgimentalista. Questa volta, il lavoro degli storici “non ufficiali” riceve conferme autorevoli che non potranno essere demonizzate facilmente con l’accusa di “borbonismo”.

Soprattutto, trova conferma il semplice fatto che la ricerca storica si fa negli archivi, leggendo documenti, consultando annuari e repertori, confrontando dati e statistiche. Quando questo avviene, come nel caso dei recenti studi esaminati da De Crescenzo, le conclusioni sono univoche: l’unità d’Italia è stata devastante per il Sud che, progressivamente, è stato depredato, svuotato di beni e di uomini, usato come magazzino di manodopera a buon mercato, come discarica di lavorazioni inquinanti e di rifiuti tossici, come cimitero di opere pubbliche ideate per ingoiare miliardi destinati agli amici degli amici. A partire dal 1861 e fino a quando la storia è divenuta cronaca.

Una devastazione certamente operata con la connivenza delle classi dirigenti meridionali. Quelle classi dirigenti politiche, economiche e culturali che sono state selezionate, istruite, formate e asservite da coloro che da questa unità ottenevano vantaggi, potere e ricchezza. Classi dirigenti senza spina dorsale perché senza identità e senza cultura, grazie anche alle bugie ed omissioni di quegli storici “ufficiali”.

Tra passato e presente, Gennaro De Crescenzo traccia un rapido schizzo, ma come sempre documentato in modo ineccepibile, di cosa l’unificazione ha rappresentato e prodotto, di quali eventi hanno avuto conseguenze ancora in progress, di chi dovrebbe tacere invece di accampare pretese, di chi avrebbe motivi per ribellarsi e non lo fa. E punta il dito contro i veri nemici del Sud.

L’autore

Gennaro De Crescenzo è nato a Napoli nel 1964. Docente di storia e letteratura in un liceo, è specializzato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica e in Scienze della Comunicazione. Nel 1993 ha fondato l’Associazione culturale Movimento Neoborbonico.
Appassionato ricercatore, ha pubblicato L’altro 1799: i fatti (Edizioni Tempo Lungo, 1999) e Le industrie del Regno di Napoli (Grimaldi, 2002).
Per l’Editoriale Il Giglio, è autore di La difesa del Regno (con altri), di Ferdinando II di Borbone, di Contro Garibaldi. Appunti per demolire il mito di un nemico del Sud.

Il brano scelto

«Se, dopo 150 anni di monopolio di una cultura risorgimentalista e antiborbonica e dopo migliaia di borse di studio, di tesi di laurea, di libri, di documentari o di film sistematicamente unilaterali, non si è riusciti a costruire un’identità nazionale, come tutti ammettono; se i Meridionali non sono geneticamente inferiori e si trovano di fronte a classi dirigenti incapaci: di chi è la colpa? Chi per decenni ha formato quelle classi dirigenti? Quella “minoranza impercettibile” che si opponeva ai Borbone, che da essi fu mandata in esilio in giro per l’Italia e per l’Europa, e che con l’Italia unita diventò “classe dirigente”: tre o quattro generazioni di politici ed intellettuali subalterni, come se ne trovano in qualsiasi “colonia”, ed asserviti ad un sistema nord-centrico nel quale non c’era – e non c’è – la possibilità di opporsi, di scegliere diversamente, se si voleva – si vuole – conservare la cattedra, l’incarico e la villa a Posillipo.
Se, come vedremo più avanti, le popolazioni meridionali hanno oggettivamente ottenuto, dal 1860 ad oggi, più svantaggi che vantaggi dai processi legati all’unificazione e dalle scelte politiche post-unitarie, dovrebbe essere facile per tutti capire chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso. Si tratta, in fondo, di poche generazioni e spesso ricorrono, in maniera sorprendente, nomi e cognomi di politici e intellettuali che diventarono classi dirigenti allora e che lo sono ancora oggi, per eredità genetica o culturale.

Eppure c’è ancora chi è capace di sostenere che l’unità “è stata una vera fortuna”, magari perché “tutti i parametri economici del Sud sono cresciuti”, dando superficialmente per scontato che gli stessi parametri non sarebbero cresciuti se le cose fossero andate diversamente, senza pensare che avrebbero potuto crescere di più e tralasciando di confrontare i dati della “crescita” con quelli del resto d’Italia.
Peggiori150anni_2.jpgEppure c’è ancora qualche moderno censore che definisce borboniche le classi dirigenti meridionali, o qualcuno che addossa ai Borbone quelle che sono invece sue proprie responsabilità e agita lo spauracchio della nascita di partiti neoborbonici, come se per anni non avesse ricoperto ruoli diretti o indiretti nella gestione della cosa pubblica, nelle redazioni dei giornali o nelle aule universitarie.
O c’è ancora chi invita i Meridionali “a non dare sempre la colpa agli altri”, “a farsi l’esame di coscienza”, “a non giustificare le proprie colpe con la storia, perché così non si va avanti”, come se in tutti questi anni il Sud non si fosse auto-flagellato già abbastanza per responsabilità non sue, esercizio che, per altro, non lo ha di certo aiutato ad andare avanti).

È ovvio che si tratta degli eredi più o meno diretti degli unitaristi che li hanno preceduti, impegnati nell’accanita difesa delle proprie posizioni, non solo culturali.
Per tornare alla situazione iniziale, è chiaro che il Regno delle Due Sicilie non fosse il “paradiso in terra”: nessuno lo ha mai scritto, nessuno lo ha mai dichiarato. Era solo un regno con un proprio percorso storico e civile coerente con il territorio e con le aspirazioni, le vocazioni dei suoi popoli. Per correttezza storiografica bisognerebbe leggere la storia in maniera diacronica: leggere, cioè, che cosa avvenne nel 1860 in maniera oggettiva confrontandolo con quanto avvenne negli anni successivi, per capire che quel percorso, con limiti e difetti simili a quelli degli altri Paesi di quegli anni, seguiva davvero un filo rosso che potrebbe essere ancora prezioso, capace di valorizzare “natura, clima, aria e suolo”, “tendenze, vocazioni e aspirazioni” dei suoi popoli – secondo le indicazioni dei ministeri del tempo – nella creazione di quello che oggi chiameremmo stato sociale, con segnali concreti e rassicuranti indirizzati ad uno sviluppo vero ed appropriato. Quel “filo” fu spezzato, rompendo la sostanziale armonia tra governanti e governati e provocando danni e conseguenze ancora vivi sulla pelle del nostro Sud, se è vero che, dopo un secolo e mezzo, siamo ancora qui a parlare di certe questioni e di Sud e Nord.

Anche se il tempo della parole dovrebbe essere ampiamente scaduto, le più alte cariche dello Stato italiano si sono impegnate quotidianamente nel rilasciare dichiarazioni poi puntualmente disattese, dal 1860 ad oggi, passando da monarchie a repubbliche, da destra a sinistra, da sinistra a destra: “l’Italia non cresce senza il Sud”; “tutti abbiamo bisogno dello sviluppo del Sud”; “le nostre speranze per risollevare l’Italia sono tutte riposte nel Mezzogiorno e nelle sue possibilità di ripresa”; “deve crescere nelle Istituzioni, così come nella società, la coscienza che il divario tra Nord e Sud deve essere corretto”; “è arrivato il turno del Sud”; “la nostra fortuna di Settentrionali è unita alla fortuna del Mezzogiorno”; “il Sud deve essere messo nelle condizioni di esprimere tutte le sue potenzialità”; per finire addirittura, come se non fosse mai capitato prima, con “serve una forza nazionale perché l’Italia deve crescere unita”…
Se il tema non presentasse risvolti tragici si potrebbe giocare alla “caccia agli autori” di queste affermazioni, sempre uguali a se stesse decennio dopo decennio.
Il Sud ha il diritto di essere scettico e stanco, sfiduciato e arrabbiato. Ha il dovere di ritrovare consapevolezza e radici, e di ricominciare a testa alta il cammino interrotto solo qualche generazione fa. Di qui la necessità, come si è scritto, di rientrare in possesso di quelle coordinate culturali, politiche ed economiche che possedeva prima dell’unificazione italiana. Nessun partito, nessun federalismo, nessuna secessione salveranno gli antichi Popoli delle Due Sicilie senza una ritrovata e diffusa consapevolezza che leghi il passato al futuro.

Nelle pagine che seguono alcuni spunti significativi e, ci auguriamo, utili per i Meridionali di oggi e le classi dirigenti di domani.»

Peso 200 g

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